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mercoledì 23 dicembre 2015

Auguri e... Biscotti di Natale!



Ci siamo, è di nuovo Natale.
L’euforia mi pervade e non riesco a smettere di fare pacchetti.
L’estetica, lo ammetto, non è mai stata il mio forte, ma nel corso degli anni ho fatto sufficiente pratica da riuscire a incartare forme regolari con risultati tutto sommato non disastrosi.

Con il passare degli anni e il progressivo affermarsi della mia indipendenza si moltiplicano le tradizioni natalizie. Quelle più antiche sono ancora quelle che riescono a emozionarmi di più: impastare gli struffoli con mia madre raccontandosi le novità; sedere alla cena della vigilia accanto a mio fratello, facendo a gara a chi si riempie di più il piatto; sfuggire al caos dei preparativi della vigilia per prendere un tè con la mia migliore amica, e riprendere finalmente i discorsi interrotti mesi prima. 
Negli ultimi anni, però, ho iniziato a ritagliarmi qualche momento per me. Quando l’atmosfera natalizia inizia a farsi sentire io faccio la spesa con cura, programmo un pomeriggio di libertà tutto per me, metto della buona musica in sottofondo, accendo il forno e inizio la cerimonia della preparazione dei biscotti. 

Adoro preparare i biscotti in inverno. Già mentre miscelo farine e spezie e inizio a impastare immagino pigri tè pomeridiani e voluttuose tazze di cioccolata calda che riscaldano le serate piovose.
Quest’anno, però, la cerimonia dei biscotti aveva una marcia in più.
Per molti il Natale, e in generale la fine dell’anno, è tempo di bilanci. Io invece faccio da sempre i miei bilanci a settembre, e il Natale è il periodo in cui mi dedico totalmente agli affetti, in cui amo pensare più agli altri che a me stessa.
Quest’anno ho lottato contro la mia mancanza di creatività e il mio pessimo senso estetico, e i miei biscotti ho voluto regalarli. È la prima volta che regalo qualcosa fatto da me in casa: giocare con le forme, i profumi e i gusti e la consapevolezza di poter regalare piccoli attimi di piacere mi ha riempito di gioia.

Vi lascio dunque con due ricette di biscotti natalizi perfetti da tuffare nel tè o nella cioccolata.
O da regalare, se volete seguire il mio consiglio e mettere da parte i bilanci ;)

E tanti auguri a tutti!

Cuori di Gingerbread al cioccolato
Questa non è veramente una nuova ricetta, quindi vi rimando a quella, secondo me perfetta, pubblicata l'anno scorso.
Non dovrete far altro che stendere la pasta e tagliarla con dei tagliabiscotti a forma di cuore. 
Sciogliete poi del cioccolato fondente a bagnomaria con un po' di burro e intingetevi i cuori. Lasciate ad asciugare su una teglia ricoperta di carta forno per almeno mezz'ora. 




Gingernuts (ricetta tratta da Delia's Cakes)
Biscotti perfetti per gli amanti dello zenzero (se non amate questa spezia vi consiglio di evitarli!), da intingere nel tè o nella cioccolata.

Ingredienti
110 gr di farina autolievitante
1 cucchiaino abbondante di zenzero
1 cucchiaino raso di bicarbonato 
40 gr di zucchero semolato
50 gr di burro a temperatura ambiente
50 gr di golden syrup (non lo avevo e l'ho sostituito con sciroppo d'acero)

Preparazione

Setacciare la farina, lo zenzero e il bicarbonato in una ciotola, aggiungere lo zucchero, poi il burro e impastare fino ad ottenere delle briciole. Aggiungere il golden syrup e completare l'impasto. Non saranno necessari altri liquidi.

Dividere l'impasto in quattro parti della stessa grandezza, ogni parte in quattro pezzi e dare ad ognuno di essi una forma sferica. Sistemarli su una placca da forno ricoperta da carta forno distanziandoli abbastanza gli uni dagli altri. Pressarli leggermente e cuocerli in forno a 190° per 10-15 minuti, finchè saranno dorati e avranno assunto il tipico aspetto "crepato".
 



mercoledì 9 dicembre 2015

Il vero viaggio inizia quando si torna a casa...

Per l'ennesima volta ricomincio a scrivere preda dei sensi di colpa. Sì, perchè per l'ennesima volta lo sguardo mi cade sulla data dell'ultimo post e mi rendo conto che ho di nuovo lasciato  passare troppo tempo senza scrivere niente.
Ma in fondo l'avevo detto che non sarei stata costante, no? 
Per una volta, quindi, nonostante lo strano senso di colpa che mi assale, sono stata coerente.
La verità è che non credo di poter più essere costante come ero riuscita ad esserlo per qualche mese l'anno scorso, pubblicando una ricetta e una recensione a settimana. Eppure non voglio lasciar andare questo angolo in cui condivido la mia ultima scoperta letteraria o un esperimento riuscito in cucina! Così continuerò a farlo, ma in modo diverso. Senza regole.

Oggi, per esempio, non voglio parlarvi di un libro e nemmeno di una ricetta. Da giorni, infatti, sento unicamente il bisogno di fermarmi e di dare voce alle impressioni di questo mio ultimo mese. Lo avrete capitolo da titolo di questo post, è stato un mese di viaggi, o per meglio dire di vita all'estero. Per la seconda volta nella vita ho trascorso un prolungato lasso di tempo lontana dall'Italia, lontana da casa. Un mese non è molto, mi direte, ma resta abbastanza per allontanare del tutto l'effetto "vacanza" e per calarsi in pieno (o quasi) in una realtà altra.
Il mio primo incontro con la Germania, da studentessa erasmus, non fu affatto semplice. Se c'è una parola che penso descriva bene i miei primi giorni in terra tedesca tre anni fa è "spaesamento": una lingua che ancora non capivo; una cultura apparentemente così vicina eppure profondamente diversa; le differenze nelle cose semplici, negli scaffali del supermercato, negli odori per le strade, nel silenzio quasi irreale. 
Il mio secondo tentativo, iniziato circa un mese fa, è stato diverso. Scesa dall'aereo ho iniziato lentamente a riabituarmi a quella lingua che amo tanto e che mi sembra sempre così ingiustamente complicata; ho riconosciuto i gesti un tempo ignoti e che adesso mi sono familiari; mi sono lentamente riadattata a modi e abitudini distanti dal mio quotidiano. 
A poco a poco mi sono riappropriata del modo di vivere che avevo imparato a conoscere e a fare mio nel corso della mia prima esperienza da studentessa spaesata, ma con una consapevolezza nuova. E così questo mese è volato, quasi senza che me ne accorgessi, quasi senza che avessi il tempo di fermarmi a riflettere. 
Qualche giorno fa, a esattamente un mese nella mia partenza, sono tornata a casa. Ho ripreso le mie due grosse valigie dal nastro trasportatore all'aeroporto; ho sorriso come un'ebete lungo tutto il tragitto che mi portava a casa, riconoscendo suoni, colori e odori; ho girato la chiave nella toppa del mio appartamento, ho abbandonato le valigie sulla soglia e, con il sorriso ancora stampato in faccia, ho raggiunto il divano e mi sono fermata. Ho ritrovato la mia dimensione, la piena familiarità con ciò che mi circonda, il senso di sicurezza dell'essere a casa mia.
Solo in quel momento, seduta sul mio nuovo divano e finalmente a casa, ho realizzato quello che avevo fatto. Una sensazione stavolta per nulla diversa da quella provata al rientro dall'erasmus. Non sono sicura di saperla spiegare bene, ma credo che si tratti di un misto di orgoglio, sollievo, consapevolezza di sè, sorpresa, voglia di ricominciare.
Finalmente ho avuto tempo di ripensare alle passeggiate nei boschi, alle tante persone incontrate e conosciute, alle conversazioni interessanti, alle splendide biblioteche (di cui mi sono perdutamente e definitivamente innamorata), alle piccole soddisfazioni personali e alle esperienze che hanno coronato i sogni del piccolo topino di biblioteca che è sempre vissuto (e temo continuerà a vivere) dentro di me.
E ancora i mercatini di Natale, le mani sempre gelate e i bar troppo riscaldati, la cioccolata calda per addolcire il lavoro e la nostalgia di casa. 
E proprio lì, sul mio divano, persa nei ricordi di un mese vissuto alla velocità della luce, ho capito che il vero viaggio stava iniziando proprio allora. Quando hai finalmente il tempo di guardarti indietro, quando i ricordi iniziano lentamente a scavarti dentro per diventare parte di te, solo allora il vero viaggio può cominciare. 


Faccio una piccola promessa conclusiva :)
La prossima volta, giuro, la smetto di blaterare e accendo il forno! 

martedì 13 ottobre 2015

(Ri)Inizi

Questo post è così difficile da scrivere che devo averlo iniziato, mentalmente, almeno un migliaio di volte. Non so bene cosa mi abbia spinta ad afferrare il computer proprio adesso, proprio ora che sono in ritardo e probabilmente finirò per pubblicare tutto senza nemmeno rileggere.
E invece mi rendo conto, mi sto rendendo conto proprio mentre scrivo, che è passato quasi un anno dal mio primo post. Fra qualche giorno sarà passato un anno dalla mia laurea, da quel momento in cui mi sembrava di non sapere più chi o cosa fossi diventata. Quel giorno, come sto facendo adesso, aveva afferrato il computer e avevo iniziato a scrivere...
Quella è una storia diversa, però. Quando ho iniziato a scrivere qui un anno fa sapevo poco su quel che sarebbe stata la mia vita nei mesi successivi (per essere esatti e con il senno di poi, non sapevo niente), ma avevo dei piani ben precisi riguardo l'andamento di questo blog. Avevo lanciato a me stessa la sfida di pubblicare due post a settimana, un libro e una ricetta, e l'avevo fatto con il sorrisetto compiaciuto di chi è sicuro che in fondo ce la farà.
Forse è per questo che è stato così difficile riprendere in mano la tastiera. Perchè adesso ripenso a quel sorriso compiaciuto e scuoto la testa, e alla me di un anno fa vorrei soltanto dire "stai tranquilla, datti tregua e non essere così sicura di quello che puoi o non puoi fare!".
Tante volte in questi mesi ho pensato di ricominciare. Ho letto decine di libri, sfornato dolci che non sempre avevo il cuore di fotografare e scattato fotografie che sono rimaste nel cassetto. Poi, non so bene quando nè come, ho capito.
 
Noi cambiamo costantemente, io sono cambiata in modi che con ogni probabilità non mi sono ancora chiari, e quando lo saranno io sarò cambiata ancora, e ancora, e ancora... E allora che senso ha, mi sono chiesta, riprendere il progetto di un anno fa come se nulla fosse, come se in questo anno non fossero successe mille cose di cui sono grata ogni giorno e altre di cui avrei volentieri fatto a meno? Non avrebbe senso, ecco la risposta.
Eppure c'è una parte di me che è ancora legata a questo mondo virtuale e ha ancora voglia di scrivere, condividere, mettersi in gioco...
Qual è il nuovo progetto?
Ecco, non ce l'ho, ma qualcosa mi inventerò, se avrete voglia di leggermi ancora.
E sorrido di nuovo compiaciuta, ma forse più consapevole.

martedì 28 aprile 2015

Il vecchio che leggeva romanzi d'amore - Luis Sepùlveda

Come troppo spesso accade di questi tempi, sono in ritardo.
Avevo tutte le buone intenzioni di pubblicare questo post il 23 Aprile, in occasione della Giornata Mondiale del Libro, celebrata tra le altre cose attraverso l'iniziativa #ioleggoperchè. Da brava lettrice mi sono iscritta all'iniziativa mesi fa, e sono diventata un messaggero con il compito di diffondere la passione per la lettura distribuendo tra conoscenti (e non) dei libri fatti stampare per l'occasione dall'AIE (Associazione Italiana Editori) e affidati ai messaggeri. Oltre a questa, una serie di altre iniziative animavano piazze, locali e biblioteche di tutta Italia. Purtroppo non ho potuto partecipare all'evento principale a Milano, ma la maratona di lettura a cui ho assistito nella biblioteca comunale di Modena mi ha comunque regalato un episodio commovente. Una bambina di sei anni che, vedendo un gruppo di persone intente a leggere pubblicamente estratti dai loro libri preferiti, insiste per salire sul piccolo palco e declamare le prime pagine di un libro di Gianni Rodari :)
Questo arzigogolatissimo prologo per dire che il libro del giorno è proprio uno di quelli che ho distribuito in giro. Devo confessare, però, che una copia l'ho tenuta io. Qualcuno aveva dubbi?


Non leggevo Sepùlveda dai tempi in cui Storia di una gabianella e del gatto che le insegnò a volare era un must assoluto nelle scuole primarie italiane. Mi era piaciuto tantissimo, ma poi devo aver collegato il suo nome alla narrativa per l'infanzia, e da lì al dimenticarlo del tutto il passo è stato fin troppo breve. Ho riscoperto Sepùlveda quest'anno, sempre pescando dall'ormai famosa biblioteca dell'amico amante dei libri brevi, e ho letto Diario di un killer sentimentale.
Poi è arrivata l'iniziativa #ioleggoperchè, e ho quindi pensato di poter approfondire la conoscenza dello scrittore cileno. Dai pochi che ho citato avrete capito che Sepùlveda ama i titoli accattivanti, di quelli che quasi sembrano spiegarti tutti ma che lasciano la curiosità di scoprire di cosa si tratti veramente. A ripensarci, forse non tutti trovano questi titoli così interessanti, ma a me personalmente fanno venire tantissima voglia di scoprire cosa si cela al di sotto di loro. E poi i libri sono così brevi che vale la pena tentare, no?
E adesso un ulteriore problema. Una volta letto il libro, come interpretarlo? Mi direte che questo è o un falso problema oppure una questione che si presenta ogniqualvolta si termina una lettura. E in parte è vero, in parte ci sono libri che più di altri si prestano alla pluralità delle interpretazioni. Per me, ad esempio, Il vecchio che leggeva romanzi d'amore è un libro sulla lettura. Facile, è già nel titolo, no? In realtà la lettura è nel titolo ma può apparire un elemento soltanto marginale nel testo, il cui nucleo narrativo centrale è una storia di caccia. Eppure in un certo senso è proprio questa storia di caccia ad essere marginale, a costituire la cornice all'interno della quale si muovono tematiche ben più rilevanti. Nella terra ai confini del mondo dove è ambientata la vicenda, i confini stessi tra quelle che con una certa presunzione chiamiamo "civiltà" e "inciviltà" si fanno estremamente labili.
Ma in tutti questo, ci si potrebbe chiedere, cosa c'entra la lettura? Dove si inserisce un'attività simile in un mondo fatto di piogge incessanti, condizioni climatiche insostenibili, predatori, insetti pericolosi ed una costante incertezza del futuro?
Se sapessi dare una risposta sensata alla questione di come si rapporta la narrazione, cioè il raccontare e l'ascoltare storie, con la vita umana, probabilmente non sarei sul mio letto con le cuffie nelle orecchie a scrivere questo post :) Devo quindi limitarmi, ammesso che sia la parola giusta, ad osservare che c'è come una relazione atavica tra "gli uomini" e "le storie".
Senza voler generalizzare un'esperienza che potrebbe essere solo personale, deve essere qualcosa di simile al desiderio infantile di chiedere "mamma, racconta...", che per me si è trasformato in una gioia immensa alla scoperta che quelle storie potevo raccontarmele da sola, leggendo.
Ed è per questo che non posso che lasciarvi con questa, secondo me splendida, citazione:

Sapeva leggere.
 Fu la scoperta più importante di tutta la sua vita.
Sapeva leggere.
Possedeva l'antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia.


Buona lettura a tutti,
Rachele

lunedì 13 aprile 2015

Le vergini suicide - Jeffrey Eugenides

Di norma sono piuttosto varia nella scelta delle mie letture.
Qualche volta, però, mi prende la fissa per un autore che mi è piaciuto e compro un suo romanzo dopo l'altro. Mi è successo qualche tempo fa proprio con Jeffrey Eugenides: dopo aver letto La trama del matrimonio ho divorato anche Middlesex, apprezzando moltissimo entrambi.
A quel punto ero pronta a proseguire nella lettura con Le vergini suicide, che in realtà è cronologicamente il primo romanzo di Eugenides, da cui è anche stato tratto il film di Sofia Coppola Il giardino delle vergini suicide (che non ho ancora visto), ma sono stata fermata da un improvviso attacco di tirchieria che ha posto fine alle mie velleità di lettrice compulsiva.
Passata la tirchiaggine, però, si era attutita anche l'infatuazione e quindi il progetto di leggere Le vergini suicide era lentamente scivolata nel dimenticatoio. Qualche giorno fa, poi, ho ritrovato il romanzo tra quelli suggeriti nella biblioteca comunale a due passi dalla mia nuova residenza, e la lettrice compulsiva che è in me ha fatto i salti di gioia all'idea di poter finalmente portare a termine l'antico progetto ;)
Devo ammettere, però, che questa volta il mio giudizio non è limpido come per gli altri romanzi di Eugenides. La letture è proceduta un po' a rilento, sicuramente in parte a causa dei nuovi impegni con i quali credo di aver annoiato tutti a sufficienza, ma forse anche a causa di una particolare densità del romanzo che dà al lettore una sensazione, probabilmente voluta, di soffocamento.
Le vergini suicide non è chiaramente il tipo di romanzo che si legge per scoprire "come finisce la storia". Il finale, infatti, che è allo stesso tempo il nucleo centrale del libro, è già contenuto nella prima riga: si tratta del suicidio delle cinque sorelle Lisbon. Le vergini suicide è la narrazione collettiva di un gruppo di adolescenti che, a venticinque anni di distanza, cercano di venire a patti con l'evento che ha segnato irrimediabilmente la loro giovinezza.
Nel reiterato tentativo di dare un senso alla tragedia delle sorelle Lisbon, i ragazzi hanno costruito negli anni un vero e proprio culto, conservando gelosamente fotografie e ricordi di vario genere che nella loro ricostruzione degli eventi vengono significativamente definiti "reperti". Questo atteggiamento è in larga parte una conseguenza dell'adorazione che i protagonisti provano per le ragazze Lisbon, sentimento peraltro amplificato dall'alone di mistero che caratterizzava la vita delle sorelle, esattamente come ne caratterizzerà la morte.
La tragedia che il libro ad un tempo stesso descrive e fa presagire resta infine, e non potrebbe essere altrimenti, inspiegata. Nessuna delle letture possibili offerte da giornalisti, medici, esperti o semplici conoscenti può pretendere di essere esaustiva. Ogni interpretazione possibile non è che un'approssimazione di una realtà interiore, celata agli sguardi esterni.
Sto provando a riordinare i pensieri in cerca di una motivazione fondata per dire che il libro non mi ha convinta fino in fondo. L'unica cosa che mi viene in mente, però, è che sia la natura stessa della tematica trattata a portare con sè una generica sensazione negativa, che non saprei spiegare altrimenti.
In tutta onestà, non saprei se consigliare Le vergini suicide. Personalmente ne ho apprezzato molti aspetti, ma non è certamente un libro che raccomanderei a tutti indistintamente.
Stavolta temo di aver fornito un contributo un po' scarso alla vostra scelta di un libro da leggere, ma forse sono riuscita lo stesso a scatenare la curiosità di qualcuno.
Buona settimana a tutti,
Rachele

sabato 11 aprile 2015

Pause di riflessione

È sempre molto difficile fare i conti con la nostra incapacità di essere all'altezza degli obiettivi che ci prefiggiamo. Forse è per questo che ci ho messo un po' per riuscire a confessare a me stessa che ultimamente il ritmo che avevo imposto a questo blog è diventato sempre più difficile da rispettare.
Quando ho iniziato, mesi fa, mi trovavo in una situazione decisamente particolare. Avevo tantissimo tempo libero, forse addirittura troppo, e questo spazio è stato in molti sensi una vera e propria ancora di salvezza.
Nel frattempo sono cambiate tante cose, ma sono sempre riuscita a tener fede alla promessa fatta a me stessa di pubblicare due post a settimana. Ho cambiato casa lasciando indietro gran parte dei miei strumenti da cucina compreso il forno, ma in qualche modo ho continuato. Gli impegni si sono moltiplicati, ma rinunciando a qualche ora di sonno ho comunque letto il mio libro settimanale.
Non so se tra chi mi legge c'è qualcuno che attende con ansia il lunedì o il venerdì. Se così fosse, devo loro delle scuse per quello che è successo questa settimana. Mi dispiace di aver saltato ben due appuntamenti, ma credo che sia arrivato il momento di fare i conti con la realtà. Da qualche settimana vivo tra Pisa e Modena, dove ho iniziato il dottorato in filosofia. Questa situazione dà origine a due ordini di problemi: prima di tutto, qui a Modena vivo in un collegio con annessa mensa e quindi non ho accesso ad una cucina. Cerco di cucinare per il blog tutte le volte che rientro in possesso dei fornelli, ma pubblicare una ricetta a settimana sarebbe davvero un'impresa. Quanto alla seconda questione, qualcuno mi ha detto che i dottorandi non leggono nulla che non abbia una qualche relazione con le loro ricerche. Io mi rifiuto categoricamente di accettare questo assunto, il che non toglie che sono costretta ad ammettere che il tempo da dedicare alle letture ricreative si è considerevolmente ridotto. L'impresa di leggere un libro a settimana mi appare sempre più impossibile.
Cerco di arrivare al punto, in modo da non trasformare questo post in uno strazio. Ho provato a pensare ad una soluzione per i problemi di cui sopra, e credo che la cosa migliore per il momento sia rinunciare agli appuntamenti fissi. Il che non vuol dire, ovviamente, che smetterò di aggiornare il blog, ma soltanto che lo farò ogniqualvolta mi sarà possibile, senza particolari scadenze.
Non è affatto un cambiamento definitivo, anzi, tra qualche mese gli impegni accademici dovrebbero diminuire permettendomi di tornare alla normalità. Ma facciamo un passo alla volta :)
Non mi resta che salutarvi e rimandarvi al prossimo post.
Non temete, il libro sul mio comodino è già quasi finito. Non passerà molto tempo!
A presto,
Rachele







sabato 4 aprile 2015

Molto forte, incredibilmente vicino - Jonathan Safran Foer

Il mio primo incontro con Jonathan Safran Foer è stato diversi anni fa, al cinema. Il film in questione era Ogni cosa è illuminata, tratto dall'omonimo romanzo di ispirazione autobiografica di questo autore americano dalle origini ebraiche.
Tralasciando le innumerevoli banalità che potrei dire sul tema "trasposizioni cinematografiche dei romanzi", in questo caso già la visione del film (per inciso, merita davvero di essere visto) suggerisce che Jonathan Safran Foer abbia una scrittura decisamente anticonvenzionale.
In Ogni cosa è illuminata, infatti, oltre a raccontare una storia toccante l'autore presenta una serie di variazioni di stile, introduce una pluralità di narratori e soprattutto gioca con la grafica, cosa che si vede fare veramente poco spesso. Così il lettore si può trovare davanti a pagine completamente bianche, ad altre piene di foto ed altre ancora illegibili, con tutte le lettere sovrapposte.
Le stesse caratteristiche si ritrovano in Molto forte, incredibilmente vicino, il secondo romanzo di Safran Foer. I giochi stilistici possono inizialmente disorientare, ma trovo che in fondo contribuiscano a rendere l'esperienza di lettura entusiasmante e variegata.
Al di là di questa particolarità, però, c'è la storia. O forse sarebbe meglio dire "le storie", perchè in Molto forte, incredibilmente vicino si incontrano diversa vicende umane, ognuna di essere capace di far trattenere il fiato e di commuovere.

I protagonisti del romanzo, che si alternano nel ruolo di voce narrante, vivono sulla propria pelle gli effetti devastanti degli eventi più traumatici dell'ultimo secolo. Non voglio anticipare troppo quindi non dico altro su quali siano gli eventi in questione. Mi limito a dire che l'autore dimostra una straordinaria capacità di dar vita a quella terribile sensazione che ci rende tutti, a volte e con le dovute differenze, incapaci di andare avanti. La lettura è accompagnata dal costante senso di avere a che fare con "un passato che non vuol passare". Il lettore stesso, tuttavia, non può che ammettere che quel passato "non può" passare. Non si può che perdonare ai protagonisti la loro incapacità di lasciarsi tutto alle spalle, il loro continuo tentativo di vivere e il perpetuo ricadere indietro, a ripercorrere i momenti che hanno segnato per sempre, in negativo, la loro vita. Questo ciclico ritornare è simboleggiato nel romanzo dalla ricerca che coinvolge direttamente Oskar, il ragazzino protagonista della vicenda.
Nella sua caccia al tesoro Oskar cerca un modo di incanalare le proprie energie, si impone uno scopo che in seguito alla sua perdita non riuscirebbe a trovare altrove. Eppure a poco a poco l'entusiasmo iniziale svanisce, il risultato sembra allontanarsi sempre più ed è la ricerca stessa a configurarsi come lo scopo. Sì, perchè infine Oskar trova la risposta che ha cercato per mesi, soltanto che questa non corrisponde affatto a ciò che avrebbe voluto trovare. A domande impossibili non ci sono risposte "giuste". Il bisogno di Oskar non può essere soddisfatto, così come il suo dolore non può essere annullato. Alla fine della sua ricerca, però, c'è forse un insegnamento: alcuni traumi non possono essere superati, per essi non c'è risposta possibile. Ma se non si può pretendere una risoluzione, si deve almeno vivere. Lentamente, molto lentamente si può ricominciare. Senza mai dimenticare.